RINNEGATI - 09/09/1000 DI - ISURUS



"Akorros non ti vuole! Tornatene da dove sei venuto!"

Il (folto) gruppo di umani che circondavano Isurus, inveendo contro di lui, spuntando a terra o in sua direzione e ridendo a gran voce puntandogli in dito contro, non aveva alcuna possibilità di saperlo ma quello era esattamente lo stesso desiderio che occupava ogni singolo istante della sua esistenza da quando si era risvegliato sulla terra ferma, alcuni mesi fa.
Alcuni di questi uomini avevano iniziato a importunarlo poco dopo il suo arrivo nella taverna che si trovava a qualche metro dalla porzione di strada in cui si trovavano adesso.
Isurus aveva deciso di prendersi una pausa, dopo la fine della sua ultima missione: nulla di particolarmente eccitante o pericoloso, gli era stato chiesto (seppur con un po' di ritrosia) di fare la guardia per un paio di notti al gregge di pecore di un pastore a qualche miglio da Akorros, che avrebbe dovuto recarsi proprio in città per risolvere alcuni affari. Unico pericolo previsto, un piccolo branco di lupi, niente che la sua alabarda e un falò ben sostenuto non erano riusciti a tenere lontano.
Una pausa, quindi.
Una capatina ad Akorros, una taverna e una birra, l'unico prodotto alimentare dei popoli delle terre emerse che non trovasse ripugnante (e, comunque, niente a che vedere con la birra che si poteva trovare nei territori degli Olonath, la famiglia di suo padre).
Grazie a quegli uomini, di quella birra, non era riuscito a toccare nemmeno la schiuma con le labbra.

"Sei solo feccia!" gli sibilò contro una donna anziana, curva e coperta da un lungo mantello nero come la notte ma pieno di toppe verdi e marroni, sostenuta soltanto da un corto bastone di legno.
Isurus, che fino a quel momento aveva ignorato le grida e gli insulti e stava cercando di seminare la folla per potersene finalmente liberare, la guardò dritta negli occhi e lei si azzittì subito, ritirandosi dietro le spalle di un paio di altre persone.
"Feccia".
Era una delle prime parole, nella lingua Comune della gente di superficie, che aveva imparato. E non gli piaceva nemmeno un po'.
Non per il suo significato o per le sue implicazioni, ma perché semplicemente non era affatto vero: a casa sua, era tutto tranne che "feccia".
Cercò di farsi largo tra la gente, senza nessuna direzione particolare in mente, ma gli uomini e le donne gli si facevano sempre più stretti attorno. Si era ormai abituato a processare l'aria attraverso le narici, e non più l'acqua tramite le branchie, per poter respirare, ma cominciava a mancargli e il cielo scuro e pieno di puntini luminosi che sovrastava Akorros gli sembrava così distante e profondo da far impallidire le immensità oceaniche.
Il senso di solitudine non era una novità, per lui, ma questo non facilitava le cose.

Una piccola pietra tracciò una parabola che superò la folla infervorata e arrivò a colpirgli di striscio lo spallaccio sinistro della cotta di maglia, a un centimetro di distanza dallo stemma di famiglia degli Olonath incastonato all'interno.
Immediatamente Isurus portò la mano all'elsa della spada che portava al fianco e cercò di individuare con lo sguardo il responsabile del gesto.
Quello era troppo.
Questi sudici abitanti delle terre aride potevano insultarlo, urlargli contro e fargli ciò che volevano, ma non potevano permettersi di umiliare così il nome dei suoi antenati.
Il SUO nome, anche lontano da casa.

"Chi è stato? Vieni fuori, codardo, e affrontami a viso aperto: diamo al resto di questi rozzi bottegai qualcosa di interessante di cui parlare nei giorni a venire!"

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